Se san Gemiliano sia stato un vescovo

Seguendo il criterio descartesiano, enunciato nel trattato dal titolo “Discorso sul metodo”, ho già sottoposto a critica numerosi elementi biografici relativi a san Gemiliano, che la tradizione orale ha trasfuso poi nei Goccius. Si dirà che demolire è abbastanza facile; molto più difficile invece costruire. Verità assolutamente indubitabile e incontestabile. Pur consapevole delle difficoltà (e delle critiche) a cui andrò incontro, mi propongo ora di concludere la “pars destruens” del mio ragionamento. Proverò poi a dare seguito alla “pars construens”. A ciò mi spinge l’incoraggiamento rivoltomi in tal senso dall’amica Sandra Mereu che in forma retorica, introducendo il mio precedente articolo, si domandava: “Dove vuole arrivare Pinotto Mura con tutti questi dubbi sull’identità di San Gemilano?” (P. M.)

Se san Gemiliano sia stato un vescovo.

E’ mia intenzione dimostrare che il racconto agiografico su san Gemiliano è il frutto di un assemblaggio di dati generalmente poco significativi, ma soprattutto confliggenti con quelli di altri racconti agiografici provenienti da altre tradizioni sullo stesso personaggio. Per questa ragione ho scelto, tra i tanti, di considerare il dato biografico che a me appare più importante, precisamente quello secondo cui san Gemiliano sarebbe stato un vescovo, anzi un vescovo della comunità cristiana di Cagliari, e per la precisione il secondo vescovo essendo succeduto a san Clemente, il più stretto collaboratore dell’Apostolo Pietro. Con riferimento al Martirologio Romano, è stata avanzata l’ipotesi che quell’Emilio, martirizzato in Sardegna insieme ai suoi compagni il 28 maggio, sia da considerare insignito di dignità vescovile, ritenendo per certo che coloro che in detto documento vengono indicati al primo posto sono, in genere, vescovi. Ma questa ipotesi non ha alcun fondamento. I martiri e i confessori appartenuti alla gerarchia della Chiesa, come si può facilmente verificare, sono sempre riportati con la rispettiva dignità ecclesiastica.

L’iconografia dei vescovi nella Cattedrale di Cagliari.

7_92_20060522113819Tempo fa ho visitato la cripta della Cattedrale di Cagliari, dove sono state sistemate le reliquie dei martiri rinvenute in occasione della campagna di scavi eseguiti su disposizione dell’Arcivescovo De Esquivel nei primissimi decenni del XVII secolo. Nella navata principale dedicata alla Vergine la formella che riveste l’urna nel quale sono state collocate le reliquie di un sant’Emiliano martire, rappresenta questo santo in abiti normali, ossia non liturgici. Nella navata a fianco, quella dedicata a sant’Isidoro, un’altra formella denuncia la presenza delle reliquie di un sant’Emiliano e un san Bonifacio, il primo più anziano del secondo: anche questi rappresentati in abiti normali. Questo elemento di per sé non prova nulla, soprattutto non contraddice il fatto che quei personaggi (quantomeno quell’Emiliano) possano essere stati vescovi. Tuttavia in quell’ultima Capella, e anche in quell’altra dedicata al grande vescovo Lucifero di Cagliari, coloro che sono stati ritenuti insigniti delle diverse dignità ecclesiastiche (vescovi, presbiteri, diaconi) sono visibilmente rappresentati con i relativi abiti liturgici.

Le cronotassi.

Ho fatto allora ulteriori ricerche e ho trovato una cronotassi (elenco cronologico) dei vescovi di Cagliari dei primi quattro secoli, i cui nomi sono di seguito riportati in ordine alfabetico: Bonifacio I − BonifacioII − Eutimio, martire − FeliceI − Felice II − Florio, arcivescovo − Giusto − Lucio − (R)estituto, arcivescovo − Severo, martire? − Rude − Tiberio − Verissimo − Anonimo − Anonimo, martire − 314 Quintasio, † − (354-370) Lucifero, †. Come si può vedere, in questo elenco il nome di Gemiliano non compare come vescovo, né al secondo posto né il alcun altro posto. Questo elenco proviene dalla Chiesa di Cagliari, o comunque è da essa condiviso; ed è stato formato sulla base delle risultanze desunte da opere di storici apprezzati e generalmente considerati attendibili¹. Interessante, ai fini del mio ragionamento, è anche quanto scrive il francescano minorita frate Antonio Felice Matteo. Fra Matteo nella sua storia dei vescovi sardi², dopo aver esposto le tradizioni agiografiche dei primi vescovi di Cagliari, a cui peraltro mostra di non dare alcun credito (“Ma chi non si metterebbe a ridere, sentendo queste cose?”), riporta la seguente cronotassi vescovile: “A Clemente e Bonifacio martiri successero nella sede cagliaritana, l’uno dopo l’altro: Sant’Avendrace martire; San Bonifacio II martire; San Giusto martire; San Floro martire; San Restituto martire; San Bono Martire; San Viviano Martire; San Lino Martire; San Severino Martire; San Rude Martire; Sant’Eutimio Martire; San Gregorio Martire”. L’autore precisa che, stando alla testimonianza del Vitale, la prova che quei martiri abbiano governato la Chiesa cagliaritana risulterebbe da documenti in possesso della stessa Chiesa. Anche in questo caso osservo che nell’elenco non è riportato Sant’Emilio, o Emiliano, o Gemiliano. Nasce pertanto, come diceva quel tale, spontanea la domanda: Se Gemiliano (nome alternativo di Emilio o Emiliano) non compare nell’elenco come secondo vescovo certo o presunto della comunità cristiana di Cagliari, perché noi insistiamo per ritenerlo tale? Forse che noi vogliamo essere più realisti del re?

Avendrace e Gemiliano: una singolare coincidenza.

Nell’elenco riportato sopra, in gran parte divergente dalla cronotassi che ritengo più autorevole, compare Sant’Avendrace (Santu Tenneru, in cagliaritano Santa Tennera). E’ interessante notare come la tradizione di questo santo coincida in gran parte con quella di san Gemiliano. Avrendace sarebbe vissuto nel I secolo e divenuto il quinto vescovo di Cagliari³; avrebbe trovato il martirio proprio nel sito dove oggi sorge la Chiesa parrocchiale a lui dedicata, edificata sull’antico ipogeo in cui il Santo martire avrebbe trovato nascondimento. Avendrace dunque sarebbe diventato vescovo della comunità cristiana di Cagliari agli inizi dell’anno 70 d. C., precisamente il 2 gennaio dell’anno 70 d. C. e quindi a qualche mese di distanza dal martirio di san Gemiliano (28 maggio 68 d.C.). Al pari della tradizione sestese su san Gemiliano anche questa relativa a Sant’Avendrace non è recepita dalla Chiesa cagliaritana. Il breve lasso di tempo che intercorre fra la data del martirio di san Gemiliano (28 maggio 69 d. C.) e la data dell’assunzione dell’ufficio episcopale da parte di sant’Avendrace (2 gennaio 70 d. C.) porta a ritenere poco credibile che nella Cattedra della Chiesa cagliaritana si siano succeduti ben tre vescovi in appena sette mesi. Non risulta infatti che a quel tempo imperversasse a Cagliari la peste, o altro evento calamitoso, o una persecuzione tanto terribile da provocare una moria di vescovi. Peraltro si ritiene che le persecuzioni contro i cristiani, in quanto ritenuti responsabili dell’incendio di Roma del 64 d.C., siano cessate con la morte di Nerone (9 giugno del 68 d.Cr.). Non solo a Roma ma in tutto l’impero. E c’è da credere che all’epoca coloro che si disputavano il seggio imperiale (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano) avessero ben altre preoccupazione che perseguitare i cristiani in Sardegna.

Ancora una tradizione su san Gemiliano.

emilio e priamo bosaUn’altra tradizione popolare su San Gemiliano, a mia conoscenza, è infine quella formatasi a Bosa. Secondo questa tradizione Sant’Emilio (o Gemiliano) è il patrono, insieme con san Priamo suo compagno nel martirio, della diocesi della quale fu il fondatore e il primo vescovo. Il tentativo di agganciare questa tradizione con il Martirologio Romano mi sembra evidente. La stessa tradizione, tuttavia, non nasconde l’esistenza di aporie: la prima di esse è dovuta al fatto che, sulla base della documentazione, la diocesi di Bosa non sarebbe anteriore all’undicesimo secolo (un tempo troppo distante dal I sec. d.Cr.); l’altra, alla consapevolezza dell’esistenza di una tradizione che le si contrappone, precisamente quella di Sestu.

Le tradizioni bisogna saperle leggere.

Di fronte a più tradizioni sullo stesso personaggio, ciascuna con contenuti propri, in tutto o in parte divergenti tra loro, se non addirittura contrastanti, quale atteggiamento assumere? Qualcuno sostiene che le tradizioni sono… tradizioni, e non si possono prendere sotto gamba, meno che meno ridicolizzare. E chi è che non condivide o può sottrarsi a questo principio? Ma delle due l’una: se alcune tradizioni popolari sul medesimo oggetto non si possono conciliare tra loro, allora qualcuna di esse va abbandonata. E’ evidente che sotto il nome di “tradizione” si pretende di far passare qualcosa che invece andrebbe definita diversamente. Le tradizioni bisogna saperle leggere, per andare alla ricerca e tentare di cogliere gli elementi che trovano una base storica. Per questo può essere molto utile la dote del “discernimento”, qualità conosciuta anche come “buonsenso”. Quanto all’uso del discernimento valgano le parole che l’Apostolo Paolo rivolse alla Comunità cristiana di Tessalonica (l’odierna Salonicco): “..esaminate ogni cosa; tenete ciò che è buono” (1Tss 5,21). In passato (ma vale anche per il presente) ci sono stati individui che, sfruttando le proprie qualità intellettuali o la posizione occupata nella società, hanno approfittato della semplicità delle persone e, con il dichiarato proposito di voler dar prova della potenza che il Signore Risorto ha dimostrato anche attraverso i suoi santi, ma spesso per altri fini, hanno raccontato “favole artificiosamente inventate”.

“Favole artificiosamente inventate”.

Esempi del genere nel più lontano passato possono essere le Passiones di san Giorgio Martire, o quelle dei santi Chirico e Giulietta. Di queste e di altre simili composizioni si dovette occupare addirittura il Primo Concilio Romano, a conclusione del quale – nel 494 d. Cr. – il Papa Gelasio I emanò un decreto dal titolo “De libris recipiendis ac non recipiendis”, con il quale proibì la lettura di tali opere in occasione di funzioni liturgiche, interrompendo in tal modo un’usanza praticata fino ad allora. A giudizio di Papa Gelasio, la lettura di quelle opere, piuttosto che avvicinare i pagani alla fede cristiana, rischiavano di allontanarne i fedeli. Per i tempi più recenti, io credo che, tra questo genere di favole, si possano citare proprio le tradizioni orali riguardanti molti martiri, poi raccolte nei Goccius, genere a cui appartiene anche la tradizione del nostro San Gemiliano.

Conclusione.

Concludo la pars destruens del mio ragionamento precisando che non è mia intenzione mettere in dubbio la reale esistenza di san Gemiliano martire, di cui oggi è molto difficile, per diversi ed ovvi motivi, costruire o ricostruire una biografia completa (dalla nascita alla morte). Né intendo negare la possibilità che tale personaggio possa essere stato un vescovo. Il mio intento è semplicemente quello di rendere evidente che il racconto agiografico su San Gemiliano è il risultato di un assemblaggio di dati generalmente poco significativi e talora non conferenti, quando non addirittura contrastanti tra loro, e soprattutto contrastanti con altri racconti agiografici dello stesso o di altri personaggi.

Pinotto Mura

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1. L. CHERCHI, autore di I vescovi di Cagliari (314-1983). Note storiche e pastorali, Cagliari [1983]; R. ZUCCA, autore di: Appunti sui Fasti episcopales Sardiniae (II periodo paleo-cristiano e l’età altomedievale), in «AA. VV., Archeologia paleocristiana e altomedievale in Sardegna. Studi e ricerche recenti, Seminario di Studi, Cagliari, maggio 1986, a cura di P. Bucarelli e M. Crespellani», Cagliari 1988; – Cronotassi dei vescovi sardi, in: «L’organizzazione della Chiesa in Sardegna 1995», Cagliari 1995; F. VIRDIS, autore di Gli arcivescovi di Cagliari dal concilio di Trento alla fine del dominio spagnolo – Stemmi e sigilli degli arcivescovi – Relationes ad limina, Ortacesus 2008.

2. Sardinia Sacra seu de Episcopis Sardis Historia, stampato a Roma l’anno 1761, pg 69.

3. Secondo questa tradizione la successione dei vescovi è la seguente: San Clemente; S. Emilio o Emiliano; San Bonifacio I; S. Siridonio; S. Avendrace;  S. Bonifacio II M.; S. Giusto I M.

San Gemiliano non è Emilio (o Emiliano) martirizzato sotto Nerone. Ma allora chi è?

Al termine “agiografia” è comunemente associato un significato con valenza negativa. Esso sta infatti ad indicare un racconto biografico falsato al fine di esaltare un personaggio. Ciò è legato al fatto che in passato sono proliferate vite di santi infarcite di elementi fantasiosi e improbabili e in definitiva prive di ogni verosimiglianza storica.  L’agiografia è però anche una disciplina che si insegna all’Università. Il suo oggetto di studio è la santità e il culto dei santi considerati in tutta la loro varietà e complessità. In interazione con altre discipline l’agiografia ha aperto nuove e interessanti prospettive storiografiche, dando vita ad esempio a un capolavoro come “I Re taumaturghi” di Marc Bloch. Questa seconda accezione del termine è la conseguenza di un lungo processo di rivisitazione operato dalla Chiesa su molte biografie di santi.

Allo scopo di difendere la legittimità del culto dei santi dagli attacchi mossi dalla Riforma protestante nel XVI secolo, e porre un argine alle forme di superstizione ad esso connesse, i testi delle vite dei santi furono passati al vaglio dell’analisi filologica e storico-critica. L’antichità di certi culti e l’esistenza stessa di santi pur molto venerati venne messa in dubbio. Per iniziativa di Jean Bolland, da questo lungo e scrupoloso lavoro di revisione è scaturita una monumentale opera nota come Acta Sanctorum, la cui pubblicazione ha avuto inizio nel 1643. Le vite dei santi che quest’opera accoglie (contenenti gli elementi essenziali sulla loro vita, morte, luogo di sepoltura, autenticità delle loro reliquie, culto) sono accompagnate da un commentario storico-critico e informativo sulle fonti.

Ho voluto recuperare questi concetti, appresi dallo studio dell’agiografia, per introdurre la seconda parte della riflessione di Pinotto Mura intorno al santo venerato a Sestu, san Gemiliano (vedi San Gemiliano è stato davvero martirizzato in occasione della persecuzione di Nerone?). Come i bollandisti del seicento Pinotto Mura valuta i vari elementi che compongono la tradizione fissata nei goccius, e la giudica nel suo complesso inattendibile. Parallelamente mostra di non credere che il santo Emilio o Emiliano di cui parlano i componimenti poetici sia il santo “Gemiliano” venerato a Sestu. Alla luce di quanto riportato sopra mi sono chiesta: dove vuole arrivare Pinotto con tutti questi dubbi sull’identità di san Gemiliano? Incuriosita ho svolto qualche ricerca al riguardo e inaspettatamente ho capito che ad accoglierli, quei dubbi, san Gemiliano potrebbe persino guadagnarci. Leggiamo intanto il seguito del suo ragionamento. (Sandra Mereu)

San Gemiliano_goccius

San Gemiliano non può essere stato martirizzato sotto Nerone.

Secondo la tradizione tramandata dai goccius, san Gemiliano sarebbe stato messo a morte durante la persecuzione dei cristiani perpetrata dall’imperatore Nerone. Per dimostrare l’infondatezza di tale credenza, è molto utile la testimonianza dello storico romano Tacito.

Tacito riferisce che l’imperatore Nerone, per placare l’orrendo sospetto che l’incendio di Roma fosse stato comandato da lui (“volle soffocare questa orrenda diceria”) accusò i cristiani (“cercò gente da accusare e con pene severissime colpì coloro che il volgo chiamava cristiani”) e li condannò a morte. Alcuni vennero mandati a morte mediante la crocefissione, altri furono bruciati vivi come torce, così da servire al calar del giorno da illuminazione notturna, altri ancora furono ricoperti da pelli di fiere e sbranati dai cani. Riferisce sempre Tacito che prima di tutto furono arrestati coloro che si professavano tali, cioè che si autodenunciavano; poi, su denuncia di questi, un’enorme massa di persone. La testimonianza relativa alle pene inflitte è una conferma che quelle pene siano state applicate ai cristiani non in quanto tali, e per ciò meritevoli di persecuzione, ma in quanto giudicati e ritenuti – a ragione o torto – responsabili del grave reato di “incendiari” della città di Roma. Si trattava infatti di forme di esecuzione capitale molto antiche, già previste dalle Leggi delle XII Tavole. In base ad esse gli incendiari venivano puniti con la pena dell’ignis, cioè della vivicombustione o cremazione, per omologia, dopo aver subito la flagellazione.

La teoria che quei condannati siano stati vittime di una persecuzione in quanto “cristiani” è dunque priva di ogni fondamento. Del resto, Nerone non aveva alcun motivo per prendersela con i cristiani eventualmente presenti nella città di Roma. Inoltre difficilmente questi potevano essere distinti dai loro turbolenti connazionali ebrei, rientrati nella capitale dopo essere stati cacciati nel 49 d.Cr. dall’imperatore Claudio. I pochissimi componenti della comunità cristiana presenti allora a Roma, peraltro, conoscevano il monito contenuto nella lettera che Paolo aveva loro inviato in attesa di poterli ammonire di persona: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”.

Questi dati storici ci portano dunque a concludere che all’epoca di Nerone non esistesse alcuna persecuzione nei confronti dei cristiani per motivi religiosi.

I cristiani non scappavano davanti alla morte.

Sempre secondo la tradizione, san Gemiliano sarebbe stato mandato a morte mediante lapidazione dai pagani nelle campagne di Sestu, mentre si allontanava da Cagliari da dove era riuscito a scappare. Al riguardo penso di poter tranquillamente obiettare: che i primi cristiani non scappavano davanti al carnefice; che un condannato – soprattutto se condannato a morte – difficilmente poteva sfuggire all’esecuzione della condanna, anche perché essa veniva eseguita immediatamente dopo la sua pronuncia.

La lapidazione non poteva essere inflitta a un cittadino romano.

Riguardo poi al tipo di esecuzione capitale, mi riesce difficile credere che san Gemiliano sia stato lapidato. Ciò per la semplice ragione che la lapidazione non era una pena applicabile nei confronti di un cittadino romano. Infatti Gemiliano, secondo la stessa tradizione orale, era cagliaritano di nascita. Cagliari, fin dal 46 a. Cr., aveva ottenuto da Giulio Cesare, in occasione del suo passaggio in città e come premio per la fedeltà dimostrata durante la guerra civile con Pompeo Magno, il titolo di “municipio” romano. In conseguenza di questo riconoscimento tutti i suoi cittadini avevano ottenuto il privilegio dell’applicazione nei loro confronti dello jus quiritium, cioè lo stesso diritto oggettivo proprio dei cittadini di Roma.

Nel mondo romano i magistrati dotati di ius imperii e i loro funzionari stavano ben attenti a non violare il sistema giuridico proprio dei cittadini romani. A tale riguardo si potrebbero citare numerosi esempi. Citerò qui il caso di san Paolo, come è riportato dagli Atti degli Apostoli. Mentre si trovava a Gerusalemme, i giudei aizzarono la folla contro di lui e tentarono di ucciderlo. Intervenne prontamente il tribuno militare romano il quale, per sapere da lui perché mai lo accusassero e gli usassero violenza, diede ordine al centurione di accompagnare Paolo alla fortezza Antonia e di interrogarlo a colpi di flagello. Mentre veniva legato con catene per procedere all’interrogatorio, Paolo rivolto al centurione gli disse testualmente: “Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?”. Il centurione spaventato a seguito di questa domanda corse trafelato dal tribuno per metterlo in guardia: “Che cosa stai per fare?”, gli disse, “quell’uomo è un romano!”. Il tribuno chiese conferma a Paolo circa la sua cittadinanza romana. Avutane conferma, ebbe molta paura per il solo fatto di aver dato ordine di metterlo in catene e dispose che coloro che dovevano interrogarlo si allontanassero immediatamente dal Paolo. Quando giunse il nuovo governatore Festo, che doveva sostituire Felice, Paolo, alla domanda se volesse andare con lui a Gerusalemme per essere interrogato in quella città, davanti a lui, sulle accuse che gli venivano mosse, rispose con decisione: “Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, e qui mi si deve giudicare… Io mi appello a Cesare” (Caesarem appello). E Festo, per tutta risposta: “Ti sei appellato a Cesare, e a Cesare andrai” (Caesarem appellasti; ad Caesarem ibis). Paolo fu inviato sotto scorta a Roma, dove comparve davanti al tribunale del prefetto del pretorio Burro, dal quale fu giudicato e assolto.

Paolo, in sostanza, come era suo diritto di cittadino romano aveva esercitato la provocatio ad populum, un antico istituto giuridico risalente alle origini della Repubblica che verrà soppresso con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero (212 d.C.). Appellandosi all’imperatore, l’accusato o il condannato si sottraeva alla giurisdizione del governatore o procuratore delle province. La condizione di Gemiliano era identica a quella di Paolo: avrebbe potuto esercitare la provocatio ad populum e in tal modo sottrarsi alla giurisdizione del presidente Felice, e magari uscire assolto come Paolo, che doveva rispondere dell’accusa di aver provocato disordini a Gerusalemme per la sua conversione al cristianesimo e per conseguente predicazione. Alla peggio, avrebbe evitato la lapidazione.

La Sardegna era una provincia senatoria.

Un’altra e non ultima ragione per cui non credo che san Gemiliano abbia subito il martirio durante la persecuzione di Nerone dipende dal fatto che all’epoca – precisamente dal 66 d.Cr. – la provincia di Sardegna e Corsica da provincia imperiale era diventata provincia senatoria. Infatti Nerone durante il suo viaggio in Grecia (la provincia d’Acaia), in occasione della sua visita a Corinto e durante il discorso tenuto in quella città aveva deciso di esonerare i greci dal pagamento di ogni imposta e tassa (“Io oggi vi rendo la libertà”). Quella provincia era amministrata dal Senato, che aveva perciò lamentato la riduzione dei proventi derivanti dai tributi provinciali. Nerone, per tacitare le lamentele, cedette in cambio al Senato la provincia di Sardegna e Corsica. Non è pertanto verosimile che il Senato, e quindi il proconsole o propretore che amministrava la provincia – stanti i rapporti non proprio idilliaci esistenti tra l’imperatore Nerone e gli esponenti della classe senatoria ed equestre – avrebbero assecondato e attuato una eventuale politica persecutoria nei confronti dei cristiani dell’isola imposta dall’imperatore.

Altre osservazioni si potrebbero fare, in aggiunta a quelle sopra esposte, per dimostrare che quell’Emilio o Emiliano o Gemiliano di cui parla la tradizione orale trasfusa nei goccius non possa essere stato vittima della persecuzione di Nerone. O quanto meno che quel preteso martire della tradizione orale possa identificarsi con quell’Emilio martirizzato in Sardegna il 28 maggio di un anno imprecisato, in una località sconosciuta e della cui condizione personale e sociale nulla si sa.

Pinotto Mura